“Non facciamoci illusioni ... non saremo noi a cambiare il mondo,

ma il mondo non riuscirà mai a cambiare noi”

(J. Mabire)

giovedì

Angelo Mancia 12/03/1980 – 12/03/2014

Angelo Mancia, il “cuore nero” ucciso dalla Volante Rossa
Come scrisse il giornalista Tommaso Besozzi nella sua inchiesta sulla mafia del 1950, «di sicuro c’è solo che è morto». Ma in quanto al resto, sull’omicidio di Angelo Mancia avvenuto il 12 marzo del 1980, stiamo ancora a quel giorno. È vero, nel 2010 le indagini furono riaperte perché si ipotizzò che l’efferato omicidio fosse collegato con l’altro, altrettanto efferato, dello studente Valerio Verbano, avvenuto meno di un mese prima, il 22 febbraio, in un luogo non distante, ossia sempre a Montesacro. La rivendicazione dei “Compagni organizzati in Volante Rossa”, in effetti, parlava di vendetta per l’assassinio del compagno Verbano, ma i responsabili non sono mai venuti fuori, né di questo né di quell’omicidio, tanto che è appena il caso di far notare se veramente i due fatti sono o furono mai collegati. Per la verità, la stragrande maggioranza degli omicidi politici dei militanti del Msi e del Fronte della Gioventù è rimasta impunita, vuoi per lo scarso interesse nell’opinione pubblica e ancora di più nell’apparato statale per l’individuazione dei responsabili, vuoi per il modo a volte superficiale e approssimativo in cui le indagini stesse furono condotte, come nel caso dell’omicidio di Francesco Cecchin, giovane missini assassinato a piazza Vescovio, non molto lontano da Montesacro. Stesso discorso per Paolo Di Nella, ucciso a piazza Gondar, a pochi metri da piazza Vescovio, nel 1983, da persone rimaste per sempre sconosciute, e per Angelo Pistolesi, freddato con tre colpi di pistola al quartiere Portuense il 28 dicembre del 1977, pochissimi giorni prima della strage di Acca Larenzia. Gli assassini di Falvella, di Mantakas, di Ramelli sono stati individuati, invece, ma hanno scontato pene talmente lievi che non ne è neanche valsa la pena, si ha la percezione di non avere avuto giustizia. Neanche un risultato per Pedenovi, ucciso a Milano, Zilli, ucciso a Pavia, Zicchieri, ucciso a Roma, tutte vittime senza giustizia. Quel 12 marzo del 1980 Angelo Mancia, che lavorava per questo giornale, che allora aveva la sede in via Milano, stava uscendo da casa sua, a via Federigo Tozzi al quartiere Talenti (il vecchio “Montesacro alto”) per andare, in motorino, al centro. Sarà stato poco dopo le 8,30. mentre è nel vialetto che sta slegando il Garelli, si sente chiamare, capisce, e tenta di tornare nel palazzo.
Troppo tardi, un a pallottola lo prende alla schiena e poi altre lo raggiungono. In tutto sette, compresa quella con cui i killer lo finiscono. A quanto si è ricostruito dopo, gli assassini della Volante Rossa lo hanno atteso, forse tutta la notte, dentro un pulmino Volkswagen azzurrino parcheggiato lì davanti, e a quanto pare indossavano camici da infermieri. Subito dopo, una Mini Minor rossa ha raccolto i killer e li ha portati via. Verde era invece la Mini Minor dalla quale partirono i colpi che uccisero Stefano Cecchetti, sempre a Talenti, un anno prima. Appena due notti precedenti altrettanto ignoti assassini avevano ucciso al quartiere Flaminio il cuoco Allegretti, scambiato per il segretario della sezione locale del Msi, continuando nell’errore anche nella rivendicazione del giorno successivo: «Abbiamo ucciso il fascista tal dei tali…». Anche questo capitava quegli anni, che un innocente finisse in mezzo agli odi politici di chi non voleva che altri ragazzi esprimessero le loro idee. Cinque giorni prima, ancora, una bomba era esplosa nella tipografia del Secolo d’Italia, dove Angelo lavorava. Oggi è impossibile negare il disegno terrorista della sinistra teso a eliminare fisicamente i loro avversari politici.

Ma negli anni Settanta i giornali, e non solo quelli di sinistra, a ogni omicidio di un “fascista”, tiravano fuori la favola della “faida interna”, come fecero per la strage di Primavalle, che – e si seppe anni dopo – era stata effettivamente fatta da tre esponenti dell’ultrasinistra, come il Msi aveva sostenuto sin dal primo momento. E ogni volta, puntuale quanto sistematica, la mistificazione, che però fu sempre smentita dai fatti. Addirittura Paese Sera mandò un volenteroso inviato ad Atene, dopo che fu ucciso Mantakas, il quale dovette ritornare senza aver scoperto trame di alcun genere. Così con Mancia non ci provarono neanche: era benvoluto e amato da tutti, nella comunità umana e politica dove viveva. Era il segretario della sezione Talenti di via Martini, sezione che gli antifascisti avevano fatto saltare diverse volte. Era un entusiasta tifoso della Lazio, quasi ogni domenica era all’Olimpico, e nel quartiere più volte si era scontrato davanti alle scuole con i temibili collettivi di Val Melaina e del Tufello. Insomma, era un militante molto in vista, e per di più facile da colpire, perché era sempre disarmato, come tutti i ragazzi del Msi, anche se qualche volta capitò che ne arrestassero qualcuno sostenendo che il pennello per attaccare i manifesti era un’arma impropria… Quanto alla Volante Rossa originaria, era un gruppo partigiano “rosso” che agì sino al 1949 che si macchiò di orrendi delitti a guerra finita, tanto che quando i componenti furono catturati, i giornali titolarono «Fino di un incubo». Attentati, sequestri, omicidi, la Volante Rossa si macchiò di un numero impressionante di reati: tra l’altro, furono loro ad assassinare nel 1947 Franco De Agazio, il direttore del Meridiano d’Italia.    I 32 imputati furono tutti condannati e pesanti pene, anche se alcuni erano stati aiutati a riparare oltre cortina. Negli anni Settanta, poi, altri membri della banda furono graziati prima dal presidente Saragat e poi da Pertini.
di ANTONIO PANNULLO  - SECOLO D’ ITALIA 12 marzo 2014






L'attentato venne rivendicato da una telefonata a "La Repubblica"
Così uccisero "Manciokan", il missino buono della sezione Talenti

"Qui compagni organizzati  in Volante Rossa. Abbiamo ammazzato noi il boia Angelo Mancia"
“Ragazza che aspettavi, un giorno come tanti, un cinema o una pizza per stare un po’ con lui. Dai apri la tua porta che vengo per parlarti, sai stasera in piazza erano tanti…”.
Cinema e pizza che Angelo Mancia e quella ragazza, quel maledetto 12 marzo del 1980 non si goderono. Né quel giorno, né quelli successivi. Angelo, venne trucidato, a colpi di pistola, sotto casa, a soli 27 anni, mentre andava a lavorare, da un infame attacco dei “compagni”.
Parlare di Angelo Mancia vuol dire, per chi lo ha conosciuto e gli è stato amico, parlare soprattutto di un grande attivista del Movimento Sociale Italiano. Lavorava come fattorino al “Secolo d’Italia”. Dotato di un carisma unico, forte personalità e soprattutto di una carica umana senza paragoni. Il suo nome, anche a distanza di 33 anni, resta legato in maniera indissolubile a quello della "mitica" Sezione Talenti dell’MSI. Quella di Via Ferdinando Martini 29. “Era legatissimo al MSI”, lo ricorda così Francesca, suo fratello Angelo. “Nel quartiere lo conoscevano tutti. Era molto presente per tutte le iniziative che il partito organizzava. Io sono stata costretta addirittura ad iscrivermi in una scuola lontana da casa, perché bastava dire il mio cognome e a tutti veniva in mente Angelo. Ma, al di là di tutto, il mio ricordo è quello di una persona splendida, cui ero legatissima”.
Figlio di una famiglia di piccoli commercianti, se non avesse sentito il forte richiamo della “giungla” politica, probabilmente avrebbe realizzato il suo sogno: aprire un negozio di alimentari.
Amava Lucio Battisti e Christopher  Cross, Angelo Mancia. E poi, era laziale. La seguiva ovunque la sua Lazio, anche in trasferta. Per molti era “un personaggio irruento”, che spesso si spingeva nelle scuole del suo quartiere, dove l’estremismo di destra e di sinistra convivevano fianco a fianco. Già, il suo quartiere, Talenti, senza troppi spazi per  i giovani, costretti,  per vedersi  e formare le solite comitive, a riunirsi davanti ai bar della zona. Ed era proprio tra queste comitive che Angelo era diventato assai popolare
“Ogni tanto partecipava perfino a degli incontri fra ragazzi di destra e di sinistra, -ricorda Francesca- che regolarmente finivano con una rissa. Ma lui stava li e, per me, per i ragazzi del quartiere era un po’ come un padre”. Era simpatico Angelo, da molti considerato un giovane dall’atteggiamento guascone, ma allo stesso tempo rassicurante.
Lui, con la sua enorme determinazione riusciva a convincere i giovani di Talenti, che la mattina erano tormentati nei licei "rossi" della zona, (Orazio e Archimede in testa) a lasciare i bar e le bische, per frequentare la "Sezione di Via Martini". In poco tempo, da quelle parti,  si creò un gruppo molto unito che, oltre alla militanza politica, iniziò a condividere una grande amicizia. Politica si, ma alternata, allo stesso tempo a momenti di svago, tutti trascorsi insieme agli “camerati”: si andava  a sciare o al mare. Poi, a primavera tutti  concentratissimi sul torneo "Fiamma" che per diversi anni fu accanitamente conteso tra tutte le sezioni missine di Roma. Questa, la parte bella. Ma Talenti era “accerchiata” da veri e propri feudi "rossi" (da una parte S. Basilio e dall’altra Tufello e Val Melaina con il tristemente noto collettivo autonomo). Il pericolo di uno scontro era sempre dietro l’angolo.
In quegli anni, quelli di piombo, si viveva così. Ma  qui, più che in altre zone, l’attesa, e spesso la paura, delle immancabili aggressioni e provocazioni da parte dei compagni era maggiore. Se non ti difendevi, morivi e amen. I grandi organi d’informazione, per giunta, avevano bella e pronta la pista della “faida interna”. Se, invece, accennavi a un minimo di reazione l’accusa di “ricostituzione” erano pronti a servirtela su un piatto d’argento. “Com’è misera la vita negli abusi di potere…”, cantava Battiato.
Provocazioni ed agguati, come quello che subì Angelo Mancia. Un agguato vile e criminale infame, un appuntamento con la morte.
È la mattina del 12 marzo 1980, ore 8.20, minuto più, minuto meno. La strada è ancora deserta. Siamo in via Tozzi, in zona Bufalotta. Angelo, come detto, fa il fattorino del Secolo d’Italia, il quotidiano del MSI. È uscito di casa, come al solito, per andare a lavoro. In motorino, parcheggiato poco distante. Ma al lavoro, “Manciokan” (gli amici lo chiamano così) non ci arriverà mai.
Non fa che pochi passi, quando, ad un tratto, si sente chiamare per nome. Ad apostrofarlo sono tre persone in camice bianco, vestiti da infermieri, che sono scese dal retro di un furgone parcheggiato lì di fronte. Hanno passato la notte chiusi nel pulmino (ma questo si saprà solo dopo). Lo aspettano.Angelo, capisce subito, avverte immediatamente il pericolo. Di coraggio ne ha da vendere. È sempre stato un vero combattente lui, schierato in prima linea. Uno, in altre parole, abituato a non tirarsi mai indietro. E lui lo sa che di nemici ne ha molti. In quegli anni si è sempre in guerra e si vive perennemente nell’inquietudine. Bisogna stare “in campana”, di teste calde in giro ce ne sono tante. Del resto, appena due giorni prima, il dieci di marzo, in via Tiepolo, sempre a Roma, un commando comunista aveva ucciso un cuoco, tra l’altro iscritto alla CGIL, Luigi Allegretti, scambiandolo per Gianfranco Rosci, segretario della sezione Msi Flaminio.
Va pure messo in conto che Mancia era da tempo entrato nel mirino degli “autonomi” che fanno riferimento al collettivo ultracomunista di Valmelaina, coi quali si era più volte scontrato, anche fisicamente. Inoltre era stato, puntualmente, inquisito per “ricostituzione del Partito fascista”.
Voltatosi di scatto, Mancia non fa in tempo neppure a fiatare. Un colpo di pistola, sparato a bruciapelo, lo colpisce subito. Ma lui rimane in piedi, grazie alla sua robusta costituzione. Magari, pensa, “forse ce la faccio”. L’unica cosa che gli viene in mente è tirare il suo “Benelli” contro i tre aggressori e correre, a perdifiato, in cerca di salvezza. Chissà cosa gli passa per la mente in quegli attimi così concitati. Non lo si saprà mai. I killer, infatti, non mollano. Lanciatisi all’ inseguimento, sono determinati a eliminarlo. E ci riescono. Altri due colpi sparatigli alle spalle, infatti, lo centrano in pieno. Mancia non ha scampo. Cade a terra, in un lago di sangue. Lo scempio non è ancora finito: uno dei tre criminali, avvicinatosi al corpo ormai agonizzante di Angelo, gli pianta una pallottola direttamente nel cervello. In totale, contro di lui, sono stati esplosi sei colpi di pistola calibro 7.65.
La rivendicazione arriva puntuale come un orologio. Stavolta si tratta dei “Compagni Organizzati in Volante Rossa”. Un gruppo mai sentito prima. L’attentato viene rivendicato da una telefonata a la Repubblica: “ qui compagni organizzati in Volante rossa. Abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Un messaggio da far rabbrividire. Ancora oggi.

La motivazione del gesto è farneticante. Viene considerato, per una sorta di responsabilità territoriale, il responsabile dell’assassino del giovane militante di sinistra Valerio Verbano, freddato il 22 febbraio del 1980 da tre giovani armati e i volti coperti da un passamontagna che fecero irruzione nella sua casa al quarto piano di via Monte Bianco 114, a Montesacro. Lo stesso quartiere in cui operava Angelo. Valerio e Angelo, insomma, militavano in fronti opposti. Due “nemici”, uniti però dallo stesso tragico destino.
La sinistra extraparlamentare addossa subito all’ambiente di destra la responsabilità dell’assassino di Verbano, nonostante nessuno lo abbia mai rivendicato. E poco importa se la mamma del giovane di sinistra, la signora Carla Verbano, che per 30 anni ha cercato gli assassini del figlio, ha avanzato il sospetto che “chi  ha ucciso Valerio, possa anche essere qualcuno della sinistra, del suo ambiente”.
Ciò nonostante viene affisso un manifesto, in quei giorni, che promette una pronta vendetta di  Verbano. C’era scritto che non sarebbero bastate "100 carogne nere". E la magistratura, ovviamente, non interviene. Gli autori del manifesto, firmato dai “compagni dell’Autonomia” non vengono arrestati, quasi che non fossero noti alla questura.
I funerali di Angelo si tengono il 14 marzo, due giorni dopo la sua morte, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, in piazza della Repubblica. Alla cerimonia, che si svolge sotto una pioggia battente, partecipa anche Giorgio Almirante, accompagnato da una folla affranta di centinaia tra dirigenti, militanti, attivisti e simpatizzanti del partito.
Dopo la cerimonia scoppiano dei tafferugli. Troppo forte la rabbia, ancora.
Mancia viene lasciato riposare in pace solo quel giorno. Già la mattina del 14 marzo, infatti, alcuni giornali cominciano, odiosamente, a dipingere il ritratto di Mancia, a loro uso e consumo: squadrista, picchiatore, violento. Sono questi alcune etichette che gli vennero affibbiate. Etichetteche cercano di infangare il nome di quello che altro non è se non un martire. La stampa antifascista, come al solito, deve in qualche modo "giustificare" o "attenuare" quest’omicidio. Tanto, dicono alla Rai e scrivono i giornali, era un violento. Niente di più falso.
Nessuno si prende la briga d’indagare. Tanto che anche questa “impresa” dei compagni resta, ancora oggi, impunita. Gli esecutori materiali dell'omicidio, grazie allo scarso impegno della magistratura romana, rimasero ignoti.
“Angelo non aveva paura di nulla, ma, certamente, non era un insensibile”. Lo ricorda così Francesco Storace.“ Io non c’ho paura- mi diceva-. Finchè, dopo due o tre bicchieri di vino, mi disse: “Ma tu che dici Francè? Noi fascisti, quando moriamo dove annamo a finì? All’inferno o in paradiso?”
Paolo Signorelli - IL GIORNALE D’ ITALIA

CORRIERE DELLA SERA 13 MARZO 1980 

Angelo Mancia, assassinio impunito. La Volante Rossa non fu mai presa
Ce li ricordiamo bene i funerali di Angelo Mancia: scontri con le forze dell’ordine in piazza della Repubblica, che noi romani chiamiamo piazza Esedra. La piazza, grandissima, era piena: bandiere, saluti romani, migliaia di giovani arrabbiati e sconvolti per la fine di un grande attivista missino ma soprattutto di una grande persona, di un ragazzo esuberante e volenteroso, sempre allegro, che fu assassinato vigliaccamente dai nuovi partigiani della Volante Rossa, gruppo che riprese il nome da un gruppo di feroci terroristi che imperversò a Milano e nel nord Italia nei giorni della “liberazione”. Era il 12 marzo 1980, gli anni di piombo si stavano quasi concludendo, nel piombo e nel sangue, e per noi missini era durissima: le sezioni si erano svuotate, per i “fascisti” c’era il coprifuoco in tutta Italia, non si potevano fare manifestazioni, attaccare manifesti, parlare alle scuole o alle università, chi non la pensava cone la sinistra era perseguitato in ogni modo. Perché allora uccidere un fascista non era reato. E neanche l’omicidio di Angelo Mancia fu un reato, a quanto pare, poiché nessuno dei suoi assassini è stato individuato. Come non si sono scoperti i responsabili di un altro efferato assassinio, quello di Valerio Verbano, avvenuto pochi giorni prima, il 22 febbraio, sempre nello stesso quartiere, Montesacro. Angelo Mancia era il segretario dell’attivissima sezione del Msi di Talenti di via Martini, zona dove abitava in via Federigo Tozzi 10. Angelo era il primo di tre figli di una famiglia che aveva un esercizio commerciale alimentare. Era più grande di otto anni rispetto ai suoi fratelli, due gemelli, Francesca e Luciano, rispetto ai quali era molto protettivo, da bravo fratellone maggiore. Sì, perché Angelo era conosciuto a
Roma soprattutto per il suo carattere estroverso, allegro, un po’ guascone. Era sempre pronto a offrire (o a farsi offrire) un “baby” in piazzale delle Muse o da Giovanni, negli anni Settanta luoghi di ritrovo dei giovani di destra. Amava le moto, la musica, la pesca subacquea ma soprattutto la politica, questo attivismo esasperato 24 ore su 24 che in quegli anni caratterizzava i “fortini” missini nella capitale. Era amico di tutti, dal vigile urbano all’angolo di piazza Talenti al barista del bar Parnaso ai Parioli. Non era antipatico a nessuno. Ma il 1980, purtroppo, fu questo e molto altro: la violenza politica non conosceva freni, atrocità inimmaginabili sembravano allora normali, stragi furono evitate per un soffio. Quell’anno era incominciato nel segno dell’antifascismo: l’8 gennaio un commando dell’estrema sinistra si introduce in orario di lezioni all’istituto De Amicis al Testaccio, preleva dalla sua classe un ragazzo simpatizzante del Fronte della Gioventù e lo massacra a sprangate nei corridoi. Ma il peggio deve ancora arrivare: il 12 febbraio, un mese prima dell’omicidio Mancia, viene assassinato dalle Brigate Rosse dentro l’ateneo romano, a Scienze politiche, il professor Vittorio Bachelet. Il 19 febbraio Montesacro entra nel mirino, anche perché pochi giorni prima un convegno di studi sulla droga organizzato dal Fronte della Gioventù aveva avuto grande successo. Due bombe ad alto potenziale distruggono la sezione missina di via Valsolda. Dopo l’assassinio di Valerio Verbano, il 22 febbraio, iniziano una serie di violente manifestazioni della sinistra che promette vendetta contro “le carogne nere”, anche se non c’è nessuna prova che il delitto abbia una matrice di destra. Salta la sede del Fuan, decine di aggressioni, bombe davanti casa di attivisti di destra; bombe anche alle sezioni del Msi Marconi, Tuscolano e Prenestino. Il 7 marzo, alle 19,45, esplode una bomba all’interno della tipografia dove si stampa il Secolo d’Italia, quotidiano del Movimento Sociale Italiano. Distrutti molti macchinari e feriti sei operai della cooperativa. Una voce femminile telefona all’Ansa: “L’attentato al Secolo non è che l’inizio, il compagno Valerio sarà vendicato”. Una seconda rivendicazione, al Messaggero, sarà firmata Compagni organizzati in Volante Rossa, ossia gli assassini di Angelo Mancia. Ma non è finita: mentre si sgombrano le macerie e si soccorrono i feriti, viene trovata dai Vigli del Fuoco una seconda bomba, che avrebbe dovuto fare una strage. Il Secolo comunque quella sera uscì lo stesso. Nella stessa serata una bomba esplode davanti alla finestra dell’attivista del Tuscolano Tonino Moi, distruggendo la camera da letto dove in quel momento non c’era nessuno. Il 9 marzo, ci fu un fatto che avrebbe potuto cambiare per sempre la storia della politica italiana: una bomba di otto chili di tritolo era stata posta all’interno della sede della federazione provinciale del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna. Se ne accorsero dei militanti che stavano cercando dei pennelli e della colla. Avvisata la polizia, gli artificieri disinnescarono l’ordigno due minuti prima dell’esplosione, che avrebbe raso al suolo l’intero palazzo. Anche questo gesto fu rivendicato dal Compagni organizzati in Volante rossa. L’11 marzo, un altro atroce omicidio al quartiere Flaminio: sempre i Compagni della Volante Rossa assassinano sotto casa un cuoco, Luigi Allegretti, convinti aver ucciso un dirigente della sezione Flaminio del Msi che abita in quella stessa strada. La sera, una bomba fa saltare la casa di un dirigente del Msi a piazza Vescovio. Come si vede, era una guerra totale.
Ecco come Angelo Mancia viene assassinato
I terroristi, ancora della Volante Rossa, attendono sotto casa sua, al quartiere Talenti, il giovane Angelo Mancia, attivista e dipendente del Secolo d’Italia, Lo aspettano tutta la notte a bordo di un pulmino parcheggiato nei pressi. Quando Angelo si avvicina al motorino per andare a lavorare, verso le otto e mezzo, i terroristi gli sparano. Angelo tenta di tornare indietro, ma è troppo tardi: lo finiscono con un colpo alla nuca, nello stile consueto della vera Volante Rossa, quella che operò dopo la guerra nel Nord Italia, assassinando avversari politici e gente comune, tra cui il giornalista fascista Franco De Agazio. Tra i vari omicidi dei partigiani della Volante Rossa, ricordiamo quello del 4 novembre 1947 di Ferruccio Gatti, responsabile milanese del Msi. Il nome probabilmente fu scelto per dare una continuità per così dire ideale al gruppo di fuoco. Il processo contro la Volante Rossa nel 1951 si concluse con 4 ergastoli, ma tre degli imputati erano già fuggiti, mentre il quarto scontò la pena fino al 1971 quando fu graziato dal presidente Saragat. Gli altri tre, invece, ricevettero la grazia da Sandro Pertini nel 1978. I killer di Angelo fuggono a piedi per poi salire su una Mini Minor rossa. Di loro non fu mai più trovata nessuna traccia. Due ore dopo arrivò la rivendicazione a Repubblica: «Qui compagni organizzati in Volante Rossa. Abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da un pulmino posteggiato lì davanti». Nel 1951 gli assassini della Volante rossa partigiana furono condannati all’ergastolo, ma erano già tutti latitanti, e di loro non si seppe più nulla. Enorme la commozione nella comunità missina, i parlamentari choiedono agli inquirenti e allo Stato di fare il loro dovere e di difendere i cittadini. Ma la violenza rossa non si ferma: il giorno dopo, il 13 marzo, una bomba esplode davanti casa di Mario Pucci, giornalista del Secolo d’Italia, il cui figlio è un attivissimo militante della sezione Flaminio. I giornali, tutti i  giornali, continuano a infangare Angelo Mancia definendolo un picchiatore, un delinquente e altro, tanto che il Secolo è costretto a pubblicare il certificato penale dal quale risulta che Mancia era incensurato. Capitava anche questo allora. Ma l’offensiva comunista prosegue: altri bar assaltati, altre sezioni distrutte, tra cui la Prati, la cui esplosione danneggia anche lo stabile. La comunità missina serra i ranghi e non cede, sopporta l’ondata di terrorismo senza precedenti e denuncia l’esistenza di un piano fatto a tavolino, perché è impossibile che lo Stato abbia perso del tutto il controllo della sua capitale, così come è impossibile che tanta gente abbia familiarità e disponibilità di esplosivi e armi. Almirante, Marchio e gli altri dirigenti iniziano visite in tutte le sezioni romane in una specie di controffensiva culturale e pacifica. Qualche giorno dopo, nella federazione del Msi di Roma, Mancia è ricordato con le parole di Orazio: “Non morirò del tutto”, e queste parole valgono per tutti i giovani morti per le loro idee.
SECOLO D’ ITALIA -12 marzo 2016 



MONZA (MI) 1980 - MANIFESTAZIONE IN  RICORDO DI MANCIA
  

ANGELO MANCIA IN FOTO CON MAESTRELLI